LA TORTA DI BABILONIA

LA TORTA DI BABILONIA

 

Non troppo tempo fummo invitati a seguire un seminario presso l’MCCD – Mesopotamic Center for Cake Design. Dopo un primo giorno noioso attorno al concetto di pieno nel pasto delle popolazioni nomadiche del deserto arabico, il secondo giorno l’attenzione di tutti fu catturata dalla relazione di Noah Lebira, che insieme all’archeologo Stephen Pel aveva da poco condotto uno scavo non lontano dal sito dell’antica Babilonia. Lungo le rive dell’Eufrate, in un punto in cui il presente e il vecchio corso ancora coincidono, presso una piccola ansa chiamata Hisan (“cavallo”), i ricercatori avevano rinvenuto due vasi in pasta vitrea non più alti di 30 centimetri e tuttora sigillati. Le prime stime gli attribuivano circa 3000 anni.
«Il contenuto del primo vaso», spiegò la dottoressa Lebira, «era di colore ambrato. La consistenza era particolarmente morbida, come se avesse resistito all’indurimento del tempo».
Con un coraggio che suscitò la nostra immediata stima, Lebira si era spinta ad incontrare la storia là dove non ci si fida mai di farlo: sulla propria lingua (e nel proprio stomaco).
«Il contenuto era tuttora commestibile e il sapore ricordava quello di un plum cake. Nel secondo vaso c’era invece della frutta, probabilmente dell’uva fragola, che dopo il primo assaggio si rivelò ancora dolce e leggermente alcolica».
Vicino ai due vasi non furono ritrovati altri reperti degni di nota. Sembrava che la coppia rappresentasse un’unità inscindibile dotata di un proprio significato specifico. Questo portò i ricercatori a pensare che il contenuto dei due vasi fosse pensato per essere mischiato insieme. La fusione del proto plum cake e dell’uva fragola produsse un certo godimento nell’equipe di studiosi, che ribattezzarono il dolce CÁKE.DINGIR.RAKI, dall’antico nome sumero di Babilonia: KÁ.DINGIR.RAKI.

Fin dagli albori della propria storia l’essere umano ha cercato di combattere il deperimento, e la lotta contro un deperimento in particolare, quello del cibo, ha plasmato e differenziato le sue culture. Fra i tanti paralleli che dividono il Nord e il Sud del mondo c’è anche quello sale-zucchero: al Nord si protrae la vita del cibo nel sale, al Sud nello zucchero. L’affumicatura è un’altra arma contro il decadimento, così come lo è l’immersione nell’alcol, ma mai prima d’ora si era trovato un reperto così antico che testimoniasse l’uso di un mezzo per ritardare il tempo che è in realtà l’assenza di ogni mezzo: il vuoto. I due vasi infatti, perfettamente sigillati, non contenevano altro che il loro contenuto, e non, come ogni cosa che erroneamente chiamiamo vuota, l’aria che tutto invecchia.

La dottoressa Lebira passò a elencare le ipotesi sull’origine dei vasi. Potevano essere stati abbandonati da una nave proveniente dall’Indocina e che, risalito il Golfo Persico e il corso dell’Eufrate, volle lasciare un segno rituale del proprio passaggio. Potevano essere il corredo funebre di un reale ー il dolce, e il miele in particolare, veniva usato nei riti funebri della Mesopotamia protodinastica: alle anime serviva energia per il lungo viaggio nell’aldilà ー ma, come si è già detto, nell’area circostante non si erano trovate tracce di templi o tombe.
«Sembra», disse Lebira, «una sepoltura rituale senza cadavere. O meglio, sembra che il cadavere da seppellire, il re da inumare, fosse il dolce stesso». Contrariamente a tutti i ritrovamenti precedenti, questa volta il dolce non simbolizzava qualcosa – l’energia per il viaggio ultraterreno, l’eternità del potere regale, la dolcezza della divinità, la preziosità della casta sacerdotale – bensì sembrava essere solo se stesso: un dolce che rappresenta un dolce, che eternizza il dolce.

Nella caffetteria dell’MCCD, poco dopo la relazione di Lebira, si accese una discussione sulle motivazioni che avrebbero spinto una civiltà antica a creare un dolce che attraversasse indenne i millenni. Un uomo calvo e coi baffi, di cui ignoriamo il nome, insisteva nel definire l’operazione una time capsule. I popoli mesopotamici avevano cercato di catturare un momento del loro presente e di conservarlo fino a noi. In sostanza, avevano comunicato con il futuro, solo che non lo avevano fatto con una pergamena o una lapide o una stele, insomma, non con delle parole, ma con un sapore.
«Sono riusciti nell’impresa di congelare una sensazione e di farle attraversare le ere».
All’uomo coi baffi rispose un dottorando dai modi suadenti che ci intratteneva appoggiando la schiena al bancone. Non era tanto il sapore, sosteneva, a doverci sorprendere, bensì la forma di questo ritrovamento. «In tutti gli ultimi anni, e per gran parte del Novecento», disse, «i filosofi si sono impegnati a combattere Cartesio. Trovatemene uno che non abbia sputato sulla divisione anima-corpo! Ci sono quelli che convergono verso l’unità, quelli che si disperdono nella moltitudine e alcuni, pochi, che ancora difendono il numero 3. Ma provate a citarmene uno solo, uno ancora in vita, che sostenga il numero 2! Il dualismo è il più bistrattato concetto del nostro tempo. Dire che qualcosa è fatto di due componenti è un’eresia! Sì, i vasi sono una capsula del tempo, ma non fanno giungere a noi un sapore, bensì un’idea. Ogni cosa si compone di due parti e due parti soltanto ー anima e corpo, materia e spirito, vita e morte, plum cake e uva fragola ー e solo unendole insieme otteniamo l’intero. Questa è la verità che ci sussurra il passato».

Le tesi del dottorando e dell’uomo baffuto, a tutta prima interessanti, furono spazzate via dall’intervento di una studiosa francese poco più che quarantenne, che sedeva a un tavolino rotondo davanti al bancone. Alle sue spalle c’erano una vetrata e la luce del deserto che la trasformava in una macchia scura incorniciata di giallo.
«Non sono il sapore, né il numero 2 il messaggio di quel dolce,» esordì approfittando di una pausa del dottorando, «il messaggio è il vuoto. Pochi popoli hanno conosciuto le stelle e i moti dell’universo tanto in profondità quanto i Babilonesi. Quello che noi chiamiamo mito e derubrichiamo a favola, era in realtà la divulgazione scientifica di una dottissima classe di astronomi. Ogni rivoluzione che troviamo nelle vecchie leggende, ogni fine del mondo e relativa palingenesi, indicano il passaggio da un ciclo cosmico a un altro. Cambia la stella più vicina al polo nord celeste, cambia la posizione della via lattea e così cambiano gli eroi delle storie antiche. I due vasi contengono il vuoto, che, a ben pensarci, è un frammento del cosmo. Sono convinta che rappresentino degli elementi del cielo. Probabilmente una stella binaria, magari Sirio, la stella più luminosa del firmamento, attorno alla cui levata eliaca ruotava il calendario egizio. Tutto porta a credere che i vasi costituiscano una mappa del cielo. Il punto in cui sono stati seppelliti, in relazione all’ansa del fiume o a qualche elemento architettonico dell’antica Babilonia, probabilmente indica delle precise coordinate celesti. Delle coordinate sì, che però sono insieme un calendario, una data precisa. Ogni mappa celeste è infatti al contempo un orologio del mondo. Se sappiamo leggere il dove, sappiamo leggere anche il quando».
Nella breve pausa che seguì non intervenne nessuno. Quando la studiosa proseguì, sembrò quasi sovrappensiero: «O forse i due vasi stanno per due pianeti, » disse in un sussurro, «Giove e Saturno, per esempio. E i vasi sono vicini per simboleggiare la loro congiunzione. La congiunzione tra i due pianeti più grandi del sistema solare. È un evento che avviene raramente, a distanza di secoli. Ne vedremo una questo 21 dicembre, per esempio. Dopo 800 anni».
Venne interrotta da un ragazzo che annunciava la fine della pausa. La cercammo nel tardo pomeriggio per proseguire la chiacchierata, ma la studiosa francese sembrava non aver seguito il resto del convegno. Non alloggiava nell’hotel insieme agli altri ricercatori.
Pochi giorni dopo il nostro ritorno in Italia, l’equipe della dottoressa Lebira pubblicò i risultati di laboratorio sul CÁKE.DINGIR.RAKI o, come la chiamammo noi, La torta di Babilonia.

Riuscirono a decifrarne la ricetta, che siamo felici di trascrivere qui di seguito.

LA TORTA DI BABILONIA

Persone: rigorosamente DUE 

Tempo: 0,00000004 dell’Era dei Pesci (50 minuti circa)

 

Ingredienti

PER IL CA’KE(.DINGIR.RAKI) ALLA VANIGLIA

200 gr burro morbido 

200 gr uova (circa 4 di dimensioni medie) 

200 gr farina (W circa 180)

150 gr zucchero di canna

30 gr miele (meglio se di acacia) 

2 baccelli di vaniglia 

4 gr lievito chimico

PER L’UVA SOTTO SPIRITO

30 acini di uva fragola 

150 gr zucchero di canna

150 gr acqua

50 gr spirito di sambuca (o quel che preferite)

 

Procedimento 

VASO DI CA’KE(.DINGIR.RAKI) ALLA VANIGLIA

Prendete un vaso di vetro per la vasocottura pulito e ben sterilizzato. Montate a parte con una frusta il burro morbido con lo zucchero, fino a che non incorpora molta aria e diventa spumoso e ben montato. Aggiungete le uova una per volta e continuate a montare.
Aggiungete il lievito e una bacca di vaniglia, e versate man mano la farina, mescolando dal basso verso l’alto a mano, senza l’uso della frusta in modo da non smontare il composto. Meglio se con l’utilizzo di un sac-à-poche, versate l’impasto nel vaso prestando attenzione a non sporcare i bordi, fino a circa la metà per permettere la crescita durante la cottura. Infornate a 150-160° per 40-50 minuti. Quando sfornate, chiudete immediatamente il tappo ermetico e capovolgete il vaso in modo tale da creare il sottovuoto.

VASO DI UVA SOTTO SPIRITO

Mettete sul fuoco un pentolino e fate cuocere uno sciroppo a base di zucchero e per ultimo aggiungete lo spirito, in modo tale che evapori l’alcol e resti l’aroma. Aggiungete quindi se volete delle spezie, a vostro piacere. Quando lo sciroppo è pronto, mettere gli acini di uva accuratamente lavati e asciugati nel vaso di vetro per la vasocottura, versate quindi lo sciroppo, e chiudete subito col tappo ermetico. Mettete il vaso nel forno a microonde per 2 minuti a 700-800 W finché non lo si vede bollire. Abbiate cura di lasciare un bordo tra la fine dello sciroppo e il tappo.

 

All’occorrenza, aprite i due vasi e versate l’uva sotto spirito sul cake, accogliendo ogni bistrattato dualismo.

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